9 ottobre 2025
Idee o dati? Top-down vs Bottom-up nella programmazione della forza
Di Samuele Bolotta
Ingegnere informatico
Elite strength trainer AIF
Coach presso CrossFit Lambrate
Negli ultimi anni mi sono trovato spesso a riflettere su una domanda tanto semplice quanto cruciale:
se entrambi i fattori sono importanti, a guidare la progressione di un atleta deve essere una periodizzazione strutturata e preimpostata “dall’alto”, oppure il feedback che emerge “dal basso” dalle sue prestazioni?
In altre parole: vengono prima le idee o i dati?
Osservando il panorama del powerlifting agonistico, ci si accorge che esistono scuole di pensiero molto diverse tra loro. Alcune difendono con decisione un approccio top-down, altre sposano in pieno la logica bottom-up, e la maggior parte — come spesso accade nella pratica — cerca di collocarsi da qualche parte nel mezzo, nel tentativo di coniugare struttura e adattamento.
La programmazione top-down: l’architettura del progresso
I modelli top-down rappresentano la forma più classica di periodizzazione. Partono da una visione d’insieme a lungo termine — il macrociclo — per poi scomporla in mesocicli e infine in microcicli.
Questo approccio fornisce un quadro chiaro e organizzato, ma la filosofia che ne guida la struttura può variare enormemente da autore ad autore.
Dalle radici sovietiche: Matveev e Verkhoshansky
Le basi della periodizzazione moderna affondano nel lavoro dei grandi scienziati sovietici.
Il modello di Lev Matveev, definito “tradizionale” o “lineare”, prevede una progressione ordinata da fasi di alto volume e bassa intensità (preparazione generale) verso fasi di basso volume e alta intensità (competizione).
L’idea è intuitiva: costruire capacità di lavoro e massa muscolare per poi trasformarle in forza e, infine, in performance di gara. È un modello che funziona bene per principianti e intermedi, ma negli atleti avanzati mostra un limite evidente: periodi troppo lunghi dedicati a una sola qualità (come il volume) portano a una parziale perdita di altre capacità (come la forza massima). È il problema classico degli “effetti di allenamento ritardati”.
Per ovviare a questa criticità, Yuri Verkhoshansky introdusse la periodizzazione a blocchi, un modello in cui ogni blocco si concentra su una sola capacità per alcune settimane, sfruttando poi gli effetti residui per potenziare il blocco successivo.
Il blocco di accumulo sviluppa la forza generale; quello di trasformazione lavora su forza specifica e potenza; infine, il blocco di realizzazione porta al picco di performance.
Questo sistema si è dimostrato efficace soprattutto per atleti avanzati, anche se richiede un’attenta gestione della fatica e una grande esperienza di coaching per mantenere attive le qualità non direttamente allenate.
Sheiko: la forza come abilità tecnica
Boris Sheiko, storico coach della nazionale russa, rappresenta un’evoluzione del pensiero sovietico.
Nel suo approccio, la forza non è tanto il prodotto della fatica, quanto l’espressione di un’abilità motoria altamente specializzata. Il suo obiettivo principale non è accumulare tonnellaggio o intensità, ma ripetizioni tecnicamente impeccabili.
Da qui derivano i pilastri della sua metodologia: alta frequenza, alto volume a carichi sub-massimali, pochissimo (o nessun) allenamento a cedimento, e grande uso di varianti per correggere errori tecnici e gestire la fatica.
Ogni ripetizione diventa un’occasione per perfezionare il gesto, e il volume è funzionale non allo stress metabolico, ma alla ripetizione della tecnica ideale.
Sheiko stesso ricordava spesso che i suoi “programmi universali” erano soltanto template, pensati come esempi da adattare, non modelli rigidi da replicare.
Jason Tremblay: il tonnellaggio come motore
All’estremo opposto del pensiero top-down troviamo Jason Tremblay, co-fondatore di The Strength Guys e coach di atleti come Taylor Atwood.
Per Tremblay, la chiave del progresso è la quantità totale di lavoro: il tonnellaggio diventa la variabile madre, quella che guida e spiega l’adattamento a lungo termine.
La logica è semplice ma potente: per continuare a crescere, il corpo deve essere esposto nel tempo a volumi progressivamente crescenti.
L’esempio di Atwood è emblematico: sotto la guida di Tremblay, ha sostenuto carichi di lavoro settimanali enormi, con tonnellaggi nello squat che sfioravano i 25.000 kg.
Un approccio di questo tipo può essere straordinariamente efficace, ma non privo di rischi. L’enfasi sul volume richiede recupero, monitoraggio e capacità di lavoro fuori dal comune. Atwood stesso ha attraversato fasi di infortuni e stop, a conferma che anche per gli atleti d’élite la gestione della fatica è un equilibrio costante.
Sheiko e Tremblay, pur appartenendo entrambi al mondo “top-down”, rappresentano due visioni quasi opposte: da un lato la precisione tecnica come motore primario della forza, dall’altro la progressione quantitativa come chiave dell’adattamento.
Entrambe hanno prodotto campioni. Entrambe, se applicate senza elasticità, possono generare ciò che potremmo chiamare “inerzia programmatica”: l’incapacità di mettere in discussione il piano anche quando i risultati non arrivano.
La logica bottom-up: far emergere la programmazione
In contrapposizione ai modelli predefiniti, l’approccio bottom-up ribalta la prospettiva.
Non si parte da una teoria universale da applicare all’atleta, ma dall’atleta stesso, lasciando che siano i suoi dati a “far emergere” la programmazione.
Mike Tuchscherer, fondatore di Reactive Training Systems, è il riferimento assoluto di questa filosofia.
La sua domanda iniziale è tanto semplice quanto geniale: “Come ti alleneresti se non avessi mai sentito parlare di periodizzazione?”
La risposta è un sistema costruito interamente sull’osservazione empirica: nessuna variabile viene modificata a priori, se non sulla base di ciò che accade realmente in pedana.
Il metodo delle Emerging Strategies si fonda su due concetti: il Development Cycle, cioè un microciclo identico ripetuto settimana dopo settimana, e il Time to Peak, ossia il tempo necessario all’atleta per raggiungere il suo picco di prestazione con quello stimolo.
Quando la performance smette di salire, il ciclo viene interrotto e si passa a uno nuovo.
In sostanza, Tuchscherer applica il metodo scientifico all’allenamento individuale: ogni blocco è un esperimento, e ogni atleta è il proprio laboratorio.
Questo approccio ha prodotto risultati di altissimo livello, soprattutto tra gli atleti d’élite, perché trasforma la programmazione da un atto prescrittivo a un processo di scoperta.
Verso la sintesi: la nuova frontiera del coaching
Oggi le differenze tra top-down e bottom-up sono più sfumate che mai.
Coach come Joey Flexx e Marcellus Williams hanno costruito sistemi ibridi, capaci di unire la struttura e la visione strategica del top-down con la flessibilità e la sensibilità individuale del bottom-up.
Flexx basa il suo lavoro su schemi settimanali semplici, con esercizi fissi e progressioni “a onde”, ma lascia grande spazio all’autoregolazione in base a parametri di performance come la velocità del bilanciere o la percezione di fatica.
Il suo principio cardine è che “il corpo segue la mente”: senza fiducia nel processo, nessuna programmazione può funzionare.
Williams, invece, adotta blocchi standardizzati di 4–5 settimane con esercizi e volumi costanti, ma modula l’RPE e i carichi in modo dinamico, costruendo un dialogo continuo con l’atleta.
In entrambi i casi, la struttura top-down fornisce la cornice, ma è la risposta individuale a guidare il pennello.
Quale approccio scegliere?
Non esiste il modello perfetto, ma il modello giusto per un atleta in un dato momento.
Il top-down funziona benissimo con principianti e intermedi, che hanno bisogno di struttura, chiarezza e progressione.
Gli atleti avanzati, invece, traggono maggiore beneficio da sistemi più flessibili, dove il feedback individuale diventa centrale.
Il vero punto non è scegliere una “scuola” ma sviluppare la competenza per muoversi tra approcci diversi, riconoscendo quando e perché cambiare direzione.
È qui che il coaching torna alla sua essenza: un equilibrio tra metodo e intuito, tra scienza e ascolto.
Perché in fondo, la forza non nasce solo da una buona programmazione, ma dalla capacità di adattare il modello all’essere umano che lo esegue.